
Da quando ho iniziato ad avere cognizione del mondo che mi circonda, da bambina, ho sempre avuto un unico desiderio.
Che fossimo al sicuro.
Io e le persone che amo.
Ogni compleanno, ogni candelina, ogni stella cadente, ogni ciglia caduta portava via un’unica richiesta: tutti al sicuro. Tutti bene.
Volevo controllare ogni cosa. Ogni più piccolo dettaglio. Nella speranza che in questo modo niente di brutto sarebbe accaduto. Se avevo uno sguardo vigile su ogni evento potevo, senza dubbio, evitare l’inevitabile. Il peggio. I danni collaterali.
Volevo controllare me stessa e chi mi stava intorno, per evitare che potessero toccare qualsiasi cosa in grado di danneggiarli. In qualsiasi modo.
Quando mia sorella cadde di testa, giù da un tavolo, nella nostra casa di montagna e mia madre e mio padre corsero al pronto soccorso, io nel mio lettino di seienne pensavo solo “Gesù fa che stia bene, in caso fai stare male me… ma fa che stia bene”.
Non sopportavo di vedere mia madre preda di quella paura. Che urlava dallo spavento. Volevo solo che tutto smettesse. Finisse. Tornasse come prima. Chiudevo gli occhi per non guardare. Desideravo solo mandare indietro l’orologio per impedire l’incidente.
Come quando tieni insieme i cocci di un vaso appena finito in frantumi, nella vana speranza inconscia che tenendolo dritto tra le tue dita possa magicamente ricomporsi.
Quando qualcosa non andava, o mi spaventava, io stavo li con le mani tese. Esaurita nello sforzo di tenere i cocci uniti e non dover affrontare in alcun modo la rottura. Non doverla nemmeno guardare.
Crescendo non si migliora. Quando si è così. Le paure aumentano. La consapevolezza dei pericoli, visibili e invisibili, è così forte da toglierti il respiro.
Un auto fuori controllo, un fulmine in mezzo al mare, un malore, un batterio letale, una malattia lenta e dolorosa, un avvelenamento involontario, un incidente aereo. Quante cose potevano togliermi dalle mani le persone che amavo? la mia sicurezza? Quante pericoli si nascondevano nella nostra quotidianità, in grado di mandare in frantumi la mia vita? Che, sapevo, non sarebbe tornata come prima. E avrei dovuto affrontare le conseguenze a occhi spalancati.
Vivevo nel melodramma e nell’ansia. Se i miei uscivano a cena annusavo il profumo di mia madre sui vestiti che aveva lasciato in camera. Come se non avessi più dovuto vederla rientrare dalla porta.
Era un sollievo, la notte, andare a dormire. Sapendo che tutti erano sotto il mio stesso tetto. Al sicuro. Sotto il mio sguardo serio e preoccupato.
Se l’infanzia di una bambina così spaventata rasenta l’assurdo, l’età adulta è la più stronza. Quando cominci a vedere i tuoi genitori più fragili. Che dimenticano qualcosa, che si trovano spaesati in una circostanza.
E allora fai ancora più attenzione di prima. Che tua madre abbia prenotato quella visita importante. Che tuo padre non vada a nuotare in mare troppo a largo. E allora lo segui con lo sguardo dalla battigia, tesa nell’ansia di vederlo uscire e tornare con i piedi per terra, prima che ti scoppi il cuore di preoccupazione.
E quando il nemico è invisibile, come in questi giorni?
Le paure si moltiplicano. Perché non puoi controllare tutti. Non ti basta guardarli per sapere che stanno bene. Che stanno seguendo le regole. Che si stanno prendendo cura di se stessi.
E allora mi sento schiacciata da questo senso di oppressione.
Un peso sul petto che da giorni non mi abbandona.
Preoccupazione per la salute e la sicurezza delle persone che amo.
Ma, soprattutto, mi sento schiacciata da questo senso di impotenza. Non poter far altro che attendere, sperando che tutto si risolva in fretta. Nel miglior modo possibile.
Sono frustrata. Per chi non ha voluto vedere la gravità della situazione. Per chi non ha calcolato i potenziali rischi. Per chi, di fronte all’evidenza, si è comunque comportato secondo il più becero egoismo.
Sono arrabbiata per la mancanza di responsabilità e di giudizio. Ma allo stesso tempo non esiste un capro espiatorio contro cui inveire. Perché bene o male la situazione era inimmaginabile. Ed è precipitata in maniera repentina e inaspettata.
Voglio urlare contro il cielo e piangere raggomitolata.
Sono costernata di fronte all’idea vaga degli enormi sacrifici economici che le persone dovranno fare per risollevarsi da questa situazione esasperante.
Mi si stringe il cuore in una morsa dolorosa solo a pensare a tutte le persone malate, spaventate e ricoverate negli ospedali. Che hanno paura, si sentono soli e non sanno in cosa sperare. Illuminati da quei brutti neon traballanti nei corridoi. Senza un appiglio preciso su cui mettere la mano per stabilizzarsi. Storditi dalla puzza di disinfettante e i rumori costanti.
Ogni volta che sento un ambulanza passare, e questo sempre non ora, mi pizzicano gli occhi e cerco di concentrarmi su altro. Perché non posso fare a meno di pensare ai figli, al coniuge, ai nipoti o ai genitori delle persone che sono dietro quella sirena. Che la seguono in auto, col cuore in gola. Pensando solo “salvalo salvalo salvalo”.
Quella è una paura viscerale che ti spezza il fiato. Quando qualcuno caro viene caricato su un’ambulanza. Guardi i paramedici, gli infermieri, guardi la persona che ami sdraiata su quella lettiga e dentro di te urli “fate qualcosa per favore, aiutatelo”.
E questi giorni il mio cuore è con i parenti di chi si trova in terapia intensiva. Che non possono nemmeno vedere o toccare la persona per cui soffrono, sperano solo che tutto vada bene. In un modo o nell’altro. Perché a loro non può capitare qualcosa di così atroce, di così inaspettato. Perché queste cose le senti al telegiornale. Non le vivi tu. Non esiste. Non è possibile.
E piango tutte le mie lacrime da giorni, alla sola idea che una persona anziana possa essere respinta dalla terapia intensiva per mancanza di posti.
Che si possa decidere, purtroppo, che quella vita non merita quanto un’altra gli sforzi fisici ed economici della struttura sanitaria e dei suoi dipendenti. Che una persona che sta male, magari sola e fragile, possa essere rifiutata anche dall’assistenza medica, perché in collasso e in emergenza, mi stringe lo stomaco in una morsa fortissima. Perché non ho la minima idea di come potrei tornare a casa stringendo la mano di qualcuno che non può essere salvato.
Io piango pure se vedo un vecchietto mangiare solo in un bar, con la sua lenta pazienza e i movimenti gentili. sbriciolandosi il cardigan e alzandosi dalla sedia con poca agilità. Non posso concepire un momento storico in cui quella persona potrebbe essere allontanata senza aiuti, senza cure. Non riesco a pensare o realizzare il dolore di qualcuno in un’ipotesi di questo tipo.
Non è che mi sia svegliata ora. Per me la situazione era seria anche ieri e anche due settimane fa. Perché sono nata con tante paure e non ho imparato, con gli anni, a gestirle.
Ma i due decreti di questi giorni è come se avessero calato una mano pesante e violenta sulle ultime speranze. Sull’idea, irrealistica, che forse mi stavo davvero impanicando troppo per niente. Che magari avessero ragione quegli incoscienti che parlavano di brutta influenza.
Ora no.
La manata ha scacciato via ogni più piccola convinzione ottimista. E vorrei solo che non soffrisse nessuno e vorrei solo sapere che andrà tutto bene.
Oggi, tutti sintonizzati davanti la stessa conferenza stampa, col fiato corto dal trentino al ragusano, è stato strano e alienante. Ha fatto scendere un velo drammatico che aveva il sapore della fine del mondo, della guerra, della catastrofe.
Forse, semplicemente, il sapore della paura.
Come quando guardi al telegiornale le immagini di un attentato in casa. Proprio lì dove non lo credevi possibile. E allora guardi i filmati e ti senti fuori dal tuo stesso corpo. Immune al problema, come se non ti riguardasse realmente, ma allo stesso tempo vulnerabile. Come se non sapessi più cosa fare, cosa dire, come comportarti nella tua vita. Che è la stessa di 5 minuti prima ma tremendamente cambiata.
Perchè non sei più al sicuro.
Ti guardi attorno cercando qualcuno che ti dica cosa devi fare. Come devi pensare. Che ti indichi la via corretta per iniziare di nuovo a vivere, lì dove qualcosa di strano e spaventoso è appena successo. Eravamo tutti davanti al televisore a guardare un uomo, come noi. Sperando ci dicesse come comportarci. Come tutelarci. Come essere sicuri al cento per cento di superare la situazione indenni.
Come proteggerci.
Stavamo in silenzio, in attesa di una formula magica. Come quando da bambini credevamo che un bacio sulla bua potesse guarire il nostro dolore. E lo faceva. Perché riponevamo una fiducia cieca in chi ce lo dava. Soffiando sulla sbucciatura con amore e dedizione. E quando le cose vanno male, come oggi, vorremmo solo qualcuno a cui affidarci. In cui credere senza remore. Che ci dica solo “andrà tutto bene”.
Ma siamo noi gli adulti ora. Non c’è un altro adulto nella stanza che possa farci sentire meglio, soffiando sulle nostre ferite. Alleviando il dolore e la stretta. Anzi. Ci dobbiamo preoccupare noi dei nostre stessi adulti “più grandi”. Ci dobbiamo sincerare che non facciano sciocchezze. Che non stiano male. Che non si trascurino e non sottovalutino il pericolo. Perché poi non potremmo proteggerli. Soprattutto dalle ipotesi peggiori.
E allora ci rendiamo conto che nessuno può rassicurarci, anche se lo desideriamo. Anche se le nostre lacrime hanno lo stesso identico sapore di quando facevamo un brutto sogno da bambini e la mamma guardava sotto il letto per sicurezza. Per mostrarci che niente doveva spaventarci tanto.
E ora, alle 2.30 del mattino, penso solo a questo.
Mamma, accendi la luce. Manda via i mostri, soffia sulle mie paure.